COME L'ARCHEOLOGO La pratica permette di aprirci a noi stessi e quindi a far emergere qualsiasi cosa è presente dentro di noi. Questo processo ci porta a confrontarci con lati di noi che magari neanche sapevamo di avere o che non volevamo saperne proprio o che abbiamo tenuto nascosti per tanto tempo. Questa apertura verso il nostro vero Sé può far affiorare immagini di noi che non ci aspettavamo di incontrare o sensazioni che magari pensavamo appartenere solo agli altri. Quando ci rendiamo conto che siamo in grado di provare e sentire anche emozioni di cui magari ci vergogniamo, possiamo sviluppare in noi l'umiltà che ci accompagna a comprendere che siamo tutti uguali, che siamo tutti Uno. Siamo tanti e siamo Uno. L'esperienza della crescita spirituale non è come cogliere un fiore dal prato e starsene lì a sentirne l'odore sotto il sole che ci scalda. Tutt'altro, ci può anzi far sentire molto a disagio e magari rimpiangere i tempi in cui tutto era ben chiuso dentro di noi e farci sballottolare qua e la dalla vita ci andava quasi bene. Ebbene si, in questo percorso andiamo a risvegliare tutti i mostri che nell'arco della nostra vita abbiamo lasciato nascosti da qualche parte dentro di noi. Ma perché sottoporsi a tutto questo? Credo che la risposta sia per essere e diventare più umani, per ritrovare un contatto autentico con un Sé primordiale che la società ha soffocato, per riconoscerci davvero per quello che siamo e non per quello che ci hanno raccontato. Da dove arriva questa sofferenza e questo disagio che possiamo provare durante il percorso? Arriva dall'attaccamento che abbiamo alle identità di noi che ci siamo dati. Lasciare andare chi crediamo di essere vuol dire lasciare andare un pezzo importante di noi che ci ha accompagnato per tanto tempo e scoprire di non essere quello può farci stare male. Per questo si pratica il non attaccamento, per imparare ad non attaccarci neanche a un disegno che avevamo fatto di noi stessi. La pratica ci porta a liberarci, anche attraverso il disagio, dai nostri vari Io che si sono stratificati nel corso della vita, dalla nostre fervide convinzioni. Spogliarci a poco a poco di queste false identità lascia lo spazio necessario al nostro vero Sé di emergere, ma questo prevede un atto di fiducia verso il non conosciuto (vero Sé) rispetto a un qualcosa che conosciamo bene (vari Io). A volte preferiamo rimanere nella scomodità piuttosto che lanciarci nel mistero dell'Essenza. Durante questo processo di scoperta di noi stessi, dovremmo avere l'accortezza di trattarci con gentilezza amorevole e compassionevole, e fare emergere piano piano, un pò alla volta, tutto il nascosto che c'è dentro di noi. Dovremmo lavorare come fa un archeologo, che scava, scava e quando trova qualcosa di prezioso (che in questo caso siamo proprio Noi), lo tratta con tutta l'attenzione e la cura possibili per riportarlo alla luce senza danneggiarlo. Con metta, Manuela
0 Come l'India, c'è solo l'India.
Io l'India la sognavo da tanto, ma non avevo mai trovato il coraggio di andare. Quando il 18 agosto sono uscita dall'aeroporto di Delhi, mi guardavo intorno e non riuscivo smettere di ripetere alla mia amica 'siamo in India! siamo in India! siamo in India!!!!'. Un'emozione di gioia fortissima che si leggeva facilmente dai miei occhi incantati e sorridenti. Da quel momento in poi quel paese mi ha avvolto, mi ha preso per mano e non mi ha più mollato fino a quando ho rimesso piede sull'aereo per tornare a casa. E' stato un viaggio intenso, pieno di tante sensazioni molto forti, a volte contrastanti. Ho scelto di vivere l'India degli indiani, cioè di dormire nelle guest house, di ordinare cibo in treno quando era necessario, di muovermi a piedi, con i mezzi pubblici o con i tuk tuk. Volevo viverlo tutto quel paese che tanto avevo sognato. E cosi è stato, ci sono entrata dentro camminando nei vicoli di Varanasi, che mi hanno portato a passeggiare all'interno di uno slum. Ho scoperto il servizio efficientissimo della metropolitana a Delhi, ho visto il divario pazzesco tra estrema povertà e estrema ricchezza ad Agra, che ospita il Taj Mahal e ho percepito la grande potenza di Shiva tra le vie di Rishikesh. Le strade di ogni città sono affollate di mucche, e sono cosi sacre che a volte si creano della gran code di macchine che aspettano i loro tempi per non disturbarle. Gli ultimi giorni che ero lì mi faceva sorridere il fatto che non facessi neanche più caso alla loro presenza. C'era una cosa invece, a cui facevo caso sempre di più, ed era l'odore speziato del masala. Anche i vestiti e la pelle a un certo punto hanno preso quell'odore e nell'insofferenza che stavo iniziando a provare, era chiaro che era arrivato il momento di tornare a casa. Ho capito che avevo riempito a sufficienza sia gli occhi che l'anima di tutto quello che quella terra sorprendentemente assurda poteva darmi. Viaggiare lì è come muoversi in un barattolo di miele, tutto è intenso, energeticamente potente e spiritualmente ricco. Una volta fatto il pieno si rientra a casa e si assapora tutto quello che ha lasciato dentro. Come l'India, c'è solo l'India. Manuela Savoretti
0 La danza dei Dervisci Rotanti
" Molte strade portano a Dio. Io ho scelto quella della danza e della musica ". J. Rumi . La danza accompagna da sempre l' uomo nella via iniziatica, è azione necessaria per l' incontro con il sacro, esperienza possibile solo con il superamento di ogni frammentazione, che conduce l' uomo a convibrare col Tutto. Il rito è il tentativo di ritrovare quella danza cosmica in cui l'uomo trascende la propia individualità e partecipa ai ritmi più generali dell' universo. Le danze sacre sono un' antica forma di trasmissione dei "misteri", coloro che sono ammessi passano attraverso un insegnamento che prevede una lunga preparazione. Il sufismo è la scienza diretta della conoscenza di Dio,i metodi e le dottrine derivano dal Corano ma provengono anche da fonti greche e hindu. Non esiste un solo movimento sufi, varie confraternite si riuniscono in luoghi, sotto la guida di un maestro. Vengono utilizzate varie tecniche come la concentrazione mentale, la respirazione, la recitazione di mantra,la meditazione (nel percorso iniziatico, in certi tipi di meditazione, la musica è un mezzo molto importante),e la danza ( una danza che è preghiera, sem, che rappresenta l'ascesa dell' uomo verso Dio, in cui l' io, la personalità si dissolve.Danza come mezzo per arrivare all' Amore Assoluto, che comporta annullamento del sè inferiore, fino a riconoscersi nell' Uno). E' soprattutto la danza che, attraverso la spettacolare cerimonia dei "Dervisci Rotanti",ha reso nota una delle varie correnti sufi. Quella che solitamente viene mostrata in pubblico ne è solo una forma incompleta, in realtà le danze sufi sono molto complesse e necessitano di anni di lavoro per essere eseguite perfettamente,non solo come movimento corporeo ma anche come atteggiamento interiore.Il derviscio compie particolari esercizi interiori atti a raggiungere uno stato di equilibrio tra il centro della coordinazione motoria, il centro intellettivo e quello emozionale, fino a realizzare uno stato di "super-coscienza", che una volta stabilizzato come stato permanente viene detto "Comunione con Allah". Derviscio deriva dal persiano "darwish", ossia mendicante implorante (povero è l'uomo che ha perduto Dio, l'Amato). In origine erano asceti che vivevano nel deserto in uno stato di estrema povertà, vestiti con una veste di lana (suf), il vestito e il piccollo secchio per l'acqua erano le loro uniche propietà. Il derviscio è anche detto "il cercatore di porte",colui che cerca la soglia, il passaggio dal mondo terreno al mondo celeste. La danza dei dervisci ha le sue origini in Turchia nel XIII secolo, fondata dal maestro sufi J.Rumi. Si narra che fu lui ad improvvisare questo tipo di danza in una strada di Konya e che in seguito gruppi di allievi dervisci si riunirono danzando davanti alle moschee . Rumi non fu solo un grande maestro ma anche un poeta riconosciuto come uno dei più importanti poeti mistici di tutti i tempi. La dottrina sufista è una dottrina dell' unità: l'intero creato, compreso l'uomo, è manifestazione del divino, ecco che lo scopo del sufista è quello di raggiungere la completa immersione dell' io individuale nella sostanza universale. Nella danza Mevlevi, dei dervisci, il "povero", grazie alla virtù del canto, del suono e della danza può ritrovare l' unione con il divino. Ogni aspetto di questa cerimonia dei dervisci, ha un profondo valore simbolico: Nella stanza del sam entrano 13 danzatori, sulla testa hanno un alto copricapo scuro a forma di cilindro, simbolo della pietra tombale che imprigiona l'uomo nella condizione materiale, indossano un lungo mantello nero, simbolo dell'ignoranza che avvolge l'uomo. Il maestro (semazen) è seduto sopra un tappeto rosso, il rosso tramonto del giorno in cui morì J. Rum. Il maestro è l'intermediario tra cielo e terra, sul suo cappello, sempre a forma di cilindro,vi è avvolta una sciarpa di colore rosso. Il tutto inizia con una preghiera e con la musica di flauti,piccoli timpani e piatti di rame, vengono anche recitati mantra e canti tratti dai poemi di Rumi. I danzatori si tolgono il mantello e appare una veste totalmente bianca, molto ampia dalla vita in giù, lunga fino ai piedi, veste che è simbolo della purezza ma anche del sudario.Iniziano a girare su se stessi in senso antiorario, inizialmente a braccia incrociate e in seguito con le braccia distese orizzontalmente. Una mano è volta in alto, come simbolo dell'accoglienza della grazia divina, l'altra mano volta al suolo, il trasferimento di questa grazia divina sulla terra.Le dita del piede sinisstro sono poggiate al suolo,l'altro piede è sollevato e dona lo slancio per la rotazione. La testa è lievemente inclinata e voltata verso destra, gli occhi fissano la mano sinistra.La danza da lenta si fa sempre piu' veloce,fino a mantenersi in un ritmo costante. Le candide tonache formano una grande campana intorno al corpo. E' questo un atteggiamento di apertura, di accoglienza, il danzatore si offre all' energia fecondatrice che si impossessa di lui, lo libera dai legami con il corpo, la vertigine viene vinta, lo spirito divino si infonde nel corpo umano. E' abbandono dell'io, estasi mistica. Quando viene realizzato questo stato di estasi, la musica cessa, e tutto procede nel silenzio. Al termine, una dolce musica di flauto richiama i danzatori. Si tratta di una danza dal significato chiaramente astrale, i dervisci ruotano intorno al propio asse ma in seguito si muovono anche nella stanza, portandosi intorno al maestro che rappresenta il sole. Qui ritroviamo un movimento che non è movimento qualsiasi, ma movimento che si compie intorno ad un centro immobile, un "punto fisso" di comunicazione tra terra e cielo. Anche in questa danza sacra si ripete il motivo di morte e rinascita,e di un punto in cui tutte le cose sono presenti in uno stato di perfetta simultaneità,lo stato di armonia e il cuore come centro dell'essere e dimora divina,il cuore che non è solo sede dell'affettività,dei sentimenti, ma centro dell'intelligenza pura (nel senso universale), capace di donare calore ma anche di "far luce". . "Di là dalle idee, di là da ciò che è giusto e ingiusto, c'è un luogo. Incontriamoci là". . Mevlana Jalaluddin Rumi Video Danza Dervisci
0 La potenza del pensiero muta il destino
La potenza del pensieromuta il destino. L’uomo semina un pensieroe raccoglie un’azione; semina un’azionee raccoglie un’abitudine; semina un’abitudinee raccoglie un carattere; semina un caratteree raccoglie un destino. L’uomo costruisce il suo avvenirecon il proprio pensare ed agire. Egli può cambiarloperché ne è il vero padrone. (Swami Sivananda)
0 Che cosa sono i Mantra dello Yoga
Che cosa sono i Mantra dello Yoga Nella tradizione Yoga la parola Mantra è una parola sanscrita composta dalle due sillabe Man e Tra. Man significa “mente, pensiero” mantre Tra significa “che pulisce, che protegge”. Quindi il significato di Mantra è “Pratica che pulisce la mente”. Il mantra è quindi una serie di parole che ripetute con la giusta pronuncia e la corretta attitudine mentale è in grado di “pulire” la nostra mente. Ongi parte del nostro corpo ha un metodo per la sua pulizia, così per la pulizia della nostra mente abbiamo la meditazione assieme alla ripetizione del mantra. Vogliamo qui fare una distinzione tra Mantra e Preghiera (della tradizione Cattolica). La preghiera è una formula in cui si chiede perdono o si chiede qualche cosa. Il mantra indiano non è una preghiera ma un mezzo per collegarci alla nostra vera essenza interiore, alla nostra vera natura al nostro “Divino” che può essere il nostro Dio cristiano, l’Universo, l’energia Cosmica. E questo avviene agendo sul nostro inconscio. Il Mantra può essere recitato a voce alta, bisbigliato oppure recitato mentalmente. Le vibrazioni sonore prodotte dalla sua recitazione agiscono direttamente sull’inconscio, producendo modifiche a livello subliminale. In genere il principiante inizierà con la recitazione a voce alta, per poi passare a quella bisbigliata e quindi a quella mentale. Gli effetti saranno gli stessi. Per esempio recitando mentalmente un mantra prima di addormentarsi esso avrà un effetto inconscio e vedrete che la mattina appena svegli la mente continuerà la recitazione del mantra in automatico. Qui di seguito riportiamo alcuni mantra che utilizziamo nelle nostre pratiche, non è importante capire il significato quanto apprendere, con la ripetizione la giusta pronuncia e avere la corretta attitudine mentale. Buona pratica… Om Saha Navavatu Om Saha Navavatu Saha Nau Bhunaktu Saha Viriam Karavavahai Tejasvi Nava Dhitam AstuMa Vidvisavaha Om. Possiamo essere protetti insieme (Maestro e discepolo). Possiamo essere nutriti insieme. Possiamo acquistare forza insieme. Lascia che la nostra conoscenza diventi Luce. Fa che nessuno ci odi Gayatri Mantra Om Bhur Bhuvah Swaha Tat Savitur Varenyam Bhargo Devasya Dhimahi Dhiyo Yo Nah Pracho Da Yat Om. Meditiamo insieme sulla luce gloriosa e fulgida del Sole cosmico. Possa Egli illuminare le nostre menti e proteggere le nostre azioni Om Asato Mah Om Asato Mah Sad Gamaya Tamaso Ma Jyotir Gamaya Mrityor Ma Amritam GamayaOm Shanti Shanti Shanti Om Portami dall’ignoranza alla Verità.dalla oscurità alla luce, dalla morte all’Immortalità. Om Pace, pace pace Om Tryambakam Om Tryambakam Yajamahe Sugandhim Pushti Vardhanam Urva Rukamiva Bhandhanat Mrityor Mukshiya Mamritat Om. Onoriamo il Triplice he tutto vecde e conosce. Colui che dal profumo soave, nutre tutti. Come un frutto si stacca dalla pianta quando è maturo. Possa egli liberarci dalla morte per l’immortalità Gurur Brahma Gurur BrahmaGurur VishnuGurur Devo MaheshwaraGurur Sakshat ParabrahmaTasmai Shree Guruvey Namaha Dhyaana Mulam Gurur MurtiPujaa Moolam Gurur PadamMantra Moolam Gurur VaakyamMoksha Mulam Gurur Kripaa Il Maestro è Brahma, il Maestro è Visnu, il Maestro è il Signore Maheśvara, in verità il Maestro è il supremo Brahman, sia dunque dovuto rispettoso omaggio al Maestro. Onoriamo il Triplice che tutto vede e conosce. Colui che dal profumo soave, nutre tutti. Come un frutto si stacca dalla pianta quando è maturo. Possa egli liberarci dalla morte per l’immortalità Om Purnamadah Purnamidam Om Purnamadah PurnamidamPurnat PurnamudachyatePurnasya PurnamadayaPurnamevavasishyateOm Santih Santih Santih! L’invisibile (Brahman) è la pienezza;Il visibile (il mondo) è anch’esso pienezza.Dalla pienezza (Brahaman) è venuta la pienezza (l’universo visibile).La pienezza (Brahaman) rimane la stessa anche dopo che la pienezza (l’universo visibile) è venuta fuori dalla pienezza (Brahaman).
0 Perchè pensiamo che per praticare yoga occorre avere un corpo flessibile
“Molti vedono le fotografie degli asana e pensano che un corpo flessibile da solo sia in grado di eseguire tali asana. Ma occorre sapere che spesso anche il corpo sottile non riesce a dare riscontro al cervello o alla mente, perché manca di sensibilità. Sebbene la flessibilità del corpo eviti l’esperienza del dolore, esso grava sui nervi, provocando affaticamento, inquietudine e dolore o pesantezza alla testa. I soggetti flessibili nella pratica esauriscono le energie anziché riceverle; le cellule vengono “spremute” e questo può indurre una infinità di malattie. Il corpo flessibile non stimola l’intelligenza a riflettere su cosa ci sia di sbagliato o di giusto nella esecuzione di un asana. Al contrario il corpo rigido ha resistenza, azione e opposizione che spingono l’intelligenza a studiare gli asana nella giusta prospettiva. Nel corpo flessibile non esiste azione, opposizione o resistenza che forniscano stimoliper il pensiero intellettuale e la stabilità emotiva: i praticanti entrano facilmente negli asana senza provare dentro di sé alcuna resistenza né risposta. Quando durante la gravidanza non si sente alcuna risposta, affiora la paura che il bambino non si muova perché privo di vita. Analogamente, l’asana eseguito senza resistenza è un asana privo di vita: come un bimbo nato morto. Supponete inoltre di ricordare una poesia parola per parola senza conoscerne il significato. Ha senso secondo voi? Solo nel momento in cui conoscete la profondità del significato della poesia iniziate ad apprezzarla. Tale apprezzamento è interazione. Iniziate a riflettere sui versi e la riflessione si riverbera su di voi inducendo pensieri nuovi. Similmente, mentre si entra in un asana o lo si mantiene, ci deve essere interazione fra corpo e mente come pure fra mente e intelligenza. Può essere che il corpo agisca ma la mente deve reagire. L’intelligenza deve riflettere sulla interazione tra corpo e mente: altrimenti il corpo fa da sé senza mandare alcun messaggio alla mente o all’intelligenza. In questo modo le porte non sia aprono all’intelligenza che non riesce a penetrare all’interno o all’esterno dell’asana, mancando di svilupparla appieno”. “SE IL CORPO E’ FLESSIBILE, LA MENTE DEVE RESISTERE E DIVENTARE DURA, AFFINCHE’ IL CORPO POSSA ESEGUIRE GLI ASANA” B.K.S.Iyengar Fonte: tratto da “Seed of pratical Yoga sown in America”, intervista di Laurie Blakeney, Rose Richardson, Sue Salaniuk e Tony Fhurman, Luglio 1992. Pubblicata da “Yoga 93, American Yoga Convention”, Ann Arbor, Michigan, 1993.
Lo Yoga è innanzitutto immobilità. Non bisogna desistere dal dirlo soprattutto in Occidente dove ha tendenza a divenire una semplice ginnastica al rallentatore. Tuttavia confondere « immobilità » con « passività » è un errore… che l’occidentale commette volentieri! Lo Yoga non può sviluppare tutte le sue potenzialità che in questa rigorosa immobilità in cui il corpo accetta l’àsana e lascia ostentare il suo dinamismo. Poiché dietro questo schermo dell’immobilità si nasconde un dinamismo tanto più intenso quanto meno si manifesta esteriormente. Questo dinamismo è il respiro. Se è vero che per « respiro » bisogna intendere ciò che intendono gli yogi, cioè le energie vitali e non soltanto la concezione restrittiva di « respirazione », ciò non di meno il controllo delle energie vitali si realizza per primo attraverso il controllo della respirazione. Infatti le àsana non sono degli atteggiamenti corporei ai quali la respirazione bene o male si sovrappone; ma ben al contrario, si strutturano e si articolano attorno alla respirazione, che ne è per eccellenza il centro vitale. Una seduta di Yoga è dunque un susseguirsi ininterrotto di respirazioni controllate con posizioni e non il contrario. Le àsana sono delle perle, ma per formare una collana, devono essere attraversate e riunite da un filo. Questo filo è la respirazione, che attraversa e lega le àsana per farne una serie. Ci sono vari modi di controllare il respiro durante le àsana. Ogni metodo presenta i suoi vantaggi. L’essenziale è che questo controllo del respiro abbia luogo. Perché ciò avvenga bisogna innanzitutto prendere coscienza della respirazione e regolarne i movimenti prima di poter prendere coscienza delle energie liberate e della loro circolazione nel corpo. Abbiamo visto che nell’immobilità delle àsana il corpo si trasforma in « statua vivente ». L’allievo vigila costantemente per soffocare ogni velleità di movimento, rilassa quanto più possibile i muscoli, per lasciare che l’àsana si svolga autonomamente (un’àsana va lasciata « farsi »). Dopo aver soppresso tutti i movimenti e tutte le contrazioni inutili, rimane solamente il movimento fondamentale della respirazione. È constatazione importante che ogni àsana condizioni un modo ben particolare di respirare. È evidente che la respirazione che si sviluppa in Paschimottanàsana (la Pinza) sarà molto diversa da quella che si instaura in Bhujangàsana (il Cobra), e ciò a causa della posizione stessa. L’allievo deve porsi in ascolto del proprio corpo! Una volta che le contrazioni inutili sono eliminate, egli avvertirà verso quale regione del corpo stesso si dirige la respirazione. Riprendiamo l’esempio della Pinza. Quando l’àsana è acquisita, cioè stabilizzata nel rilassamento muscolare e nell’allungamento della colonna vertebrale, respirando un po’ più profondamente di quanto la respirazione spontanea non richieda, l’allievo si accorge che la respirazione addominale provocata dai movimenti del diaframma trova come un ostacolo, l’addome venendo premuto dalle cosce. Ed è qui che conviene continuare a respirare con il diaframma, che dovrà lottare contro la massa delle viscere compressa in un volume più ridotto. Approfondendo la respirazione diaframmatica contro la debole resistenza delle viscere, ne risulta dapprima un intenso massaggio degli organi addominali. Un po’ disturbata inizialmente, la respirazione addominale ben presto si fa più libera. Perché e come? Perché gli organi compressi si decongestionano, scaricano l’eccesso di sangue che ritengono abitualmente, sangue che si trova ben presto reimmesso nella circolazione generale. Masse di sangue stagnanti nell’addome sono cosi meccanicamente espulse dagli organi compressi come delle spugne; attraverso la vena cava inferiore queste masse rifluiscono verso il cuore il quale le guida ai polmoni per esservi depurate prima di tornare al cuore ed essere fatte rifluire nelle arterie e da qui verso tutte le parti del corpo. Gli organi cosi « trattati » riprendono il loro volume e la loro forma; ciò spiega la « liberazione » del respiro che avviene dopo alcuni istanti di leggera difficoltà. Appena si libera il movimento del diaframma bisogna andare oltre il respiro, più. lontano, e tuttavia senza forzare. Qualunque sia l’àsana, il respiro si dirigerà da solo verso la zona di minore resistenza. Il respiro si dirigerà verso il punto del torace dove potrà svilupparsi più completamente; nel caso della Pinza, verso i fianchi e la schiena. Continuando a respirare con il diaframma, l’allievo controllerà il respiro, cercando di indovinare o meglio di sentire dove l’àsana vuole dirigere la sua espansione. Bisogna far propria e accentuare questa tendenza, aiutare il respiro a rendere mobili le costole. Dopo che le respirazioni, prima incentrate sul diaframma e poi sul movimento delle costole, avranno sollecitato zone ben precise del torace e caratteristiche per ogni àsanay bisognerà lasciare che il respiro raggiunga la parte alta dei polmoni. Nel caso della Pinza; si presenterà un’altra resistenza: quando la respirazione addominale è limitata dalla massa degli organi racchiusi dalle pareti addominali premute dalle cosce quando i fianchi e le costole hanno raggiunto la loro massima espansione, è possibile incamerare ancora un po’ d’aria inviandola verso gli apici dei polmoni. Bisogna sforzarsi. Così l’aria sarà diretta verso quelle zone polmonari dove non penetra abitualmente e sarà aumentata la mobilità generale dell’apparato respiratorio. Abbiamo trattato dell’inspirazione. Quanto all’espirazione, essa beneficerà della posizione stessa (che la facilita). Tanto più l’inspirazione è avvenuta contronatura, cioè facendo uno sforzo, con dolce ostinazione, per vincere le resistenze dovute alla postura, tanto maggiormente ne è facilitata l’espirazione. Anche lì bisogna cercare di accentuare e accrescere l’inclinazione naturale. L’espirazione sarà resa più profonda abbassando la parte superiore del torace, contraendo i muscoli che comandano questa parte del corpo, aiutati dall’elasticità del torace stesso; il suo restringimento sarà aumentato dalla contrazione dei muscoli intercostali; la fascia addominale terminerà l’espirazione contraendosi con forza, ma senza violenza. È la muscolatura addominale, soprattutto del basso ventre, che avrà lo scopo di spingere il diaframma il più in alto possibile e di espellere gli ultimi residui di aria. Prolungato per uno, due, tre minuti o più questo lavoro consegue tutta la sua efficacia; essa si manifesta con un calore corporeo che si diffonde in tutto l’organismo, rivelando la liberazione e la circolazione delle energie vitali e non solo l’aumento dell’ossigenazione del sangue: l’effetto è più profondo, più vitale. Così per ogni posizione, « ascoltando » il proprio corpo, l’allievo scoprirà dove deve inviare il respiro. Facciamo un altro esempio. Nel Cobra la situazione sarà naturalmente diversa, molto diversa da quella che si crea nella Pinza. In questo caso, infatti, la colonna vertebrale è ricurva all’indietro, l’addome non è più compresso contro le cosce ma, al contrario, viene disteso al massimo. Di nuovo una resistenza sorge al livello del diaframma quando l’allievo vorrà farlo scendere più in basso durante la prima fase della sua inspirazione. Ma non è la stessa parte del diaframma che è qui sollecitata. Non è necessario porsi degli interrogativi a questo proposito: è la prassi che interessa! L’allievo interiorizzandosi durante la prima fase dell’inspirazione, prenderà coscienza della zona di resistenza che si sforzerà di superare con insistenza dolce e progressiva. Nessuna fretta e nessuna brutalità. Appena si sarà liberata la respirazione diaframmatica, l’allievo intensificherà il lavoro costale. Ora non sarà più sui fianchi e sulla schiena che la respirazione si farà spontaneamente, ma verso la parte anteriore del torace, verso la parte inferiore dello sterno. Ed il lavoro si completerà verso le clavicole. Nel Cobra la parte superiore dei polmoni viene ventilata molto più facilmente che nella Pinza. Quanto all’espirazione l’allievo si sforzerà di portarla al massimo grado. Questi due esempi possono servire da schema generale per tutte le posizioni in avanti e per quelle all’indietro. Essi dimostrano che ogni àsana condiziona un tipo di respirazione e sollecita di più una zona dell’addome, del diaframma, delle costole, in breve di tutto l’apparato respiratorio. In questo modo una serie di àsana ben concepite mette in causa altre zone a seconda della posizione, per rendere più agile e liberare tutto l’apparato respiratorio. Le posizioni di torsione agiscono in modo molto diverso nonostante il principio sia lo stesso: presa di coscienza delle zone di maggiore e minore resistenza, lotta contro le prime, accettazione ed intensificazione dei movimenti nelle seconde. Se prendiamo Ardha Matsyendràsana come esempio di torsione, i movimenti del diaframma, sospingendo i visceri verso il basso, sono limitati dalla coscia che comprime il ventre, resistenza che si attenua dopo alcune respirazioni. Ma la torsione della colonna implica una certa deformazione del torace, il che richiederà un tipo di respirazione molto particolare. La cosa più importante sarà il sincronismo del respiro con l’intensificarsi progressivo dell’àsana. In ogni torsione è essenziale « sbloccare » la colonna all’altezza dell’osso sacrale. Partendo dalla base, la torsione si estende pian piano a tutta la colonna per « stadi » successivi. Ogni « stadio » è contrassegnato da un’espirazione. Durante l’inspirazione l’allievo rimane immobile, si interiorizza nel meccanismo dell’inspirazione, cerca di renderla più completa possibile seguendo le istruzioni avute in precedenza ma non aumenta la torsione. Al momento dell’espirazione utilizzerà la sua leva d’appoggio, in generale il braccio, per aumentare la torsione. È evidente che l’accrescimento della torsione, partendo dal basso all’alto, diminuisce ad ogni nuova espirazione; il fatto stesso è importante, anche se si tratta di raggiungere solo qualche millimetro. Alla fine dell’àsana non bisogna trascurare di ruotare con cura la parte cervicale della colonna. Ecco quel che concerne il modo di respirare, cioè la meccanica respiratoria esteriore. Resta da esaminare una parte essenziale: il ritmo. Due sono i sistemi utilizzabili. Si può semplicemente lasciare il respiro andare e venire al suo ritmo naturale accontentandosi di ampliarlo. È un sistema classico molto valido, a condizione di non perdere di vista in nessun movimento il respiro durante l’esecuzione dell’àsana. Forse qui si incontra la maggiore difficoltà. L’altro sistema, semplice, universale, efficace consiste nell’eguagliare rigorosamente la durata dell’inspirazione e quella dell’espirazione. Se l’allievo si propone di procedere così, attento ad equilibrare il più rigorosamente possibile la durata dell’inspirazione e dell’espirazione, automaticamente la sua attenzione rimarrà concentrata sul respiro durante tutta la durata dell’àsana. Questo sistema non si limita ad equilibrare inspirazione ed espirazione; intensificandolo si richiede un rallentamento dei movimenti respiratori. ‘ A poco a poco si instaura così una respirazione lenta, dolce, equilibrata, potente che ricarica l’organismo di vitalità e di dinamismo. Rallentata e completa, la respirazione diventa più efficace. Equilibrata, domina la mente e l’attenzione, ciò che è assolutamente essenziale. Essa equilibra Pràna ed Apana. Altro vantaggio di questo sistema è di facilitare la durata delle asana. È l’immobilità prolungata che libera il respiro per permettergli di sviluppare il suo proprio dinamismo. Di riflesso questa respirazione ampia, equilibrata e cosciente rilassa ancor più i muscoli, facilita il loro allungamento, permette di tenere senza sforzo la posizione sempre più a lungo. Dopo circa trentanni di prove dei diversi sistemi, quest’ultimo mi sembra il più adatto agli allievi di tutti i paesi, di ambo i sessi e di diverse capacità fisiche. E la sua semplicità, che permette di sapere esattamente come respirare in qualunque àsana, non è il più piccolo dei suoi meriti. Di più, è esente da ogni pericolo. (Tratto da “I miei esercizi di Yoga” di Denise e Andre’ van Lysebeth)
0 Lo yoga non è una maniera di fare, ma una maniera di essere
Rischiamo di incrostarci nella nostra reclusione spirituale… e dopo, trovare difficile proiettarci al di fuori, vittoriosamente, per applicare alla vita quello che avremo conquistato nella Natura Superiore […] La sola possibile soluzione è quindi di praticare il silenzio mentale nell’ambiente e nel posto dove apparentemente sembra più difficile: in strada, in metropolitana, al lavoro e ovunque. Invece di passare quattro volte al giorno per il Boulevard Saint Michel come poveracci stanchi e obbligati a camminare svelti, si può passare le stesse quattro volte coscientemente, come ricercatori. Invece di vivere in un modo qualsiasi, sperduto in una moltitudine di pensieri – non solamente privi di interesse, ma che esauriscono sfibrando l’essere – si possono riunire i fili sparsi della coscienza e lavorare, lavorare su se stessi ad ogni istante. Allora la vita comincerà a prendere interesse, un interesse assolutamente inaspettato, perché le minime circostanze diventeranno l’occasione di una vittoria su se stessi. Avremo allora un orientamento, sapremo dove andare invece di camminare alla cieca. Lo yoga non è una maniera di fare, ma una maniera di essere. (Sri Aurobindo – tratto da: “Satprem. Sri Aurobindo. L’avventura della coscienza”)
0 I 5 punti dello Yoga di Swami Vishnudevananda
1. ESERCIZIO APPROPRIATO (ASANA) Attraverso le Asana si migliora la circolazione e si massaggiano gli organi interni eliminando le tossine. Si rendono flessibili le articolazioni, i muscoli, i tendini ed i legamenti. La pratica costante della Asana aiuta a mantener il nostro corpo giovane e forte. Le Asana effettuate attraverso la respirazione aiutano a sviluppare il controllo della mente. 2. RESPIRAZIONE APPROPRIATA (PRANAYAMA) Attraverso la respirazione controllata e consapevole, si smuovono le energie accumulate nel nostro corpo (prana). 3. RILASSAMENTO APPROPRIATO (SAVASANA) Il rilassamento appropriato è un eccellente sistema di raffreddamento, simile a quello di una macchina, ed è il modo più naturale per ridare energia al corpo. Il rilassamento è così importante perché il corpo e la mente non funzionano bene se continuamente sotto stress. Per controllare ed equilibrare il corpo e la mente, è necessario usare in modo efficiente la propria energia fisica; questo è il motivo principale per cui è necessario imparare a rilassarsi. 4. DIETA APPROPRIATA (VEGETARIANA) Siamo quello che mangiamo ! La dieta vegetariana è formata da cibi puri che ricevono il loro nutrimento direttamente dal sole , che sono facili da digerire e non appesantiscono la digestione ed aiutano a tenere in forma il corpo e la mente. 5. PENSIERO POSITIVO E MEDITAZIONE Il pensiero positivo e la meditazione sono le chiavi per la pace della mente. La meditazione è il metodo usato per calmare e focalizzare la mente. Una pratica regolare favorisce sia uno stato d’animo sereno sia il benessere fisico e spirituale. Tuttavia, per poter meditare è necessario prima focalizzare la mente con alcune tecniche di concentrazione e con il pensiero positivo. Una mente piena di pensieri negativi e di emozioni si calma difficilmente.
(Tratto da “I miei esercizi di Yoga” di Denise e Andrè van Lysebeth) Altro punto importante dello Yoga (e le asana non devono sfuggire a questa regola): bisogna evitare che si instauri l’abitudine, il condizionamento. Non soltanto siamo tutti principianti, ma dobbiamo esserlo sempre, sino alla fine! Il neofita ha tante cose a cui pensare e fare durante la sua lezione che la sua mente ne è quasi automaticamente assorbita. E’ perfetto ! Ma quando si instaura l’abitudine, se non si fa attenzione, si potrebbe arrivare ad effettuare le asana quasi meccanicamente, pensando agli affari propri, alle proprie preoccupazioni, lasciando in breve che il pensiero vaghi liberamente. Ecco sorgere l’ostacolo. Durante la luna di miele, il marito rimane a fianco della sua donna, non l’abbandona un istante e ogni minuto della sua presenza è affascinante. E dieci anni dopo ?…. Nello yoga, la luna di miele dovrebbe essere continua. E’ possibile, poiché c’è molto da scoprire nello Yoga e nel proprio corpo. E’ più che una possibilità, è una delle condizioni essenziali di esecuzione delle posizioni. Durante le asana bisogna sempre “impadronirsi” del proprio corpo, pensarvi, lasciarsi assorbire, ascoltarlo. Non soltanto per lo stimolo equilibrato dei due emisferi cerebrali, ma perché l’esperienza del corpo, la percezione interiore del nostro universo corporeo è la base stessa del nostro equilibrio psichico. La psicologia moderna sa bene che ogni perturbazione psichica è seguita da una perturbazione a livello corporeo. Ma ci sono anche altre ragioni per questa presa di coscienza. Noi finora abbiamo affrontato solo la fase dinamica delle asana e l’inizio della fase statica. Una volta raggiunta l’immobilità, il ruolo della mente sembrerebbe quasi terminato. Quando il corpo è in asana sembrerebbe sufficiente ce vi rimanesse senza troppo preoccuparsi di ciò che può fare la mente. E’ esattamente al momento in cui la partecipazione attiva di quest’ultima sembrerebbe meno utile che essa diviene più indispensabile ed essenziale, tanto dal punto di vista degli effetti corporei quanto dal punto di vista degli effetti psichici delle asana. Una delle condizioni di esecuzione delle asana è costituita dall’immobilità prolungata. Non è dal punto di vista del corpo che nascono le difficoltà per conservare l’immobilità. E’ la mente che si ribella. E’ quest’ultima che cerca di far muovere il corpo, poiché questo corpo immobile vorrebbe, per contagio, immobilizzare anche la mente, ed a questa non piace affatto. Gli indiano paragonano volentieri la mente ad una scimmia, Vivekananda ed altri hanno ripreso questo paragone. La scimmia è sempre in movimento, ed è il simbolo dell’agitazione mentale. Vanno anche più oltre: paragonano la mente ad una scimmia ubriaca punta da uno scorpione ! Ecco dunque la nostra mente scimmia ubriaca che si trova bruscamente imprigionata in un corpo immobile. La mente vorrebbe intervenire, far muovere il corpo, ed ecco che si esige l’immobilità ma la mente, come la scimmia, è scaltra. Si accontenta di movimenti minimi, che soddisfano tuttavia il suo bisogno smanioso di movimento. Lasciando il corpo in una immobilità relativa, cerca di muovere un po’ la testa, o le dita, o i piedi, con il pretesto di aggiustare la posizione. E’ qui che bisogna essere attenti ed esigere che la mente lasci che il corpo sia rigorosamente immobile; se c’è necessità di correggere la posizione, per esempio dopo una decina di respirazioni nell’aratro, si può intensificare l’asana spingendo i piedi più lontano, all’indietro, ma ciò deve essere fatto deliberatamente e dovranno essere eseguite tutte le correzioni insieme. Non bisogna tollerare una irrequietezza continua nel corso dell’asana. E’ certo che ciò non è gradito alla mente, almeno all’inizio. Essa cerca di ribellarsi. Astuta suggerirà: “Ecco è già molto tempo che mantieni questo aratro; se lo mantieni troppo a lungo, non avrai il tempo per eseguire altre asana, ed hai tante cose urgenti da fare oggi”. Non bisogna ascoltarla, L’immobilità del corpo, la mente-scimmia lo sa bene, pian piano causa una rallentamento dell’attività della mente, riduce il numero dei pensieri che affiorano alla coscienza, ed è questo uno degli scopi ricercati dagli yogi, per lo meno uno degli obbiettivi previsti. Come procedere allora ? Noi occupiamo la mente, la controlliamo, la manteniamo nell’universo interiore. Bisogna impedire il suo incontrollato vagabondare che tanto le piace. Anche in un corpo rigorosamente immobile, tuttavia molti muscoli rimangono in azione: quelli della respirazione. Il fatto di regolare minuziosamente la durata dell’inspirazione e la durata dell’espirazione al fine di equilibrarle, costituisce già un buon “ancoraggio” per la mente. Conserviamo questo immedesimarsi della mente nella respirazione, aggiungendo una dimensione supplementare: durante l’inspirazione l’allievo pronuncerà in silenzio il suono OM, e così pure durante l’espirazione. L’O deve occupare circa metà del tempo dell’inspirazione (o della espirazione); la M la seconda metà. Di più le OM successive non devono essere separate. Quando termina l’inspirazione, si lascia vibrare la fine della M fino a che comincia l’espirazione e con questa la O. Non si tratta dunque di una successione di OM, OM, OM separati, ma una sequela OMOMOM senza soluzione di continuità. A poco a poco l’attenzione, pur rimanendo sempre fissata sulla respirazione con funzione di supporto ritmico, si focalizza sul ritmo e il suono interiore più che sul ritmo puramente muscolare e corporeo. La mente scivola così verso un piano meno fisico, verso un altro livello di coscienza. La vibrazione dell’OM agisce potentemente sulla mente e la calma prima di operare a livello di coscienza. Lasciate che l’OM interiore si moduli secondo il vostro umore del momento, lasciate che un’atmosfera emotiva sbocci in voi. E’ una gioia interiore che, a poco a poco, pervade la vostra mente sotto l’influenza dell’OMOMOM ritmato come una lenta risacca su una spiaggia. Questo va e vieni mentale, questa vibrazione sottile provoca profondi effetti sull’inconscio. Non è necessario intellettualizzare l’OM, ne dargli un significato. L’intellettualizzazione andrebbe in senso contrario rispetto allo scopo cercato che è precisamente quello di isolare l’intelletto per qualche tempo, a vantaggio delle zone più profonde dell’inconscio. Il nostro psichichismo è molto sensibile, al ritmo e alle vibrazioni. La musica e la danza sono un linguaggio universale e profondo, ma i suoni sottili sono ancora più efficaci. Che lo si credo o no, l’OM non limita il suo effetto all’inconscio. Anche silenziosa ed immaginata la vibrazione impregnerà tutto il corpo e discenderà fino alle viscere, fino ai tessuti più lontani, fino alle estremità delle nostre dita, nei nostri alluci, fino alla radice dei capelli. E’ un linguaggio segreto che ci permette di giungere alle profondità dei nostri visceri. Noi tendiamo troppo a localizzare l’”io” nel cervello. L’ “Io” è, invece, dappertutto. Esso utilizza, è vero, più il cervello come strumento del pensiero e d’azione, ma non si limita a quest’organo. Ci sono altri centri di coscienza nel corpo. Sarete molto sorpresi nello scoprire di poter trovare dei punti coscienti lontani dal cervello. Non è una coscienza intellettuale e riflessa (propria del cervello), ma una coscienza percettiva, che si fa sempre più acuta col passare del tempo. Forse qualche allievo si mostra deluso se non arriva a percepire ciò nel volgere di qualche giorno o di qualche settimana. Dite pure che questa percezione non giunge sempre al livello della coscienza di veglia abituale. Dite pure che “ciò” avviene anche quando non lo percepite consciamente. In qualunque modo, ciò che ben presto percepirete è che questo sistema di procedere aggiunge una dimensione nuova alla vostra pratica dello Hatha-Yoga. Non c’è più niente in comune con nessun’altra attività fisica usuale, sia essa professionale o sportiva, niente in comune con le nostra attività intellettuali usuali. Noi quindi entriamo in un’altra dimensione, una dimensione segreta ma affascinante. Cessiamo di navigare sulla superficie del nostro essere, nello strato intellettuale, per praticare la “pesca subacquea”, e sotto le onde cha agitano la superficie scopriamo un universo sconosciuto ed avvincente, molto più vasto di quanto potessimo immaginarci, per scoprire la quiete del profondo. E’ allora che facciamo del vero Hatha-Yoga, dello Yoga integrale, dello Yoga d’integrazione. E le onde della superficie, quando ritornerete al loro livello, non vi scuoteranno più e non vi troveranno più disorientati. (Tratto da “I miei esercizi di Yoga” di Denise e Andrè van Lysebeth)